martedì 10 giugno 2014

Il ministro e la riforma

Mi è venuta così, leggendo diversi pezzi sui quotidiani di questa mattina. Il ministro della funzione pubblica, Marianna Madia, ha convocato i sindacati per giovedì prossimo,  prima del consiglio dei ministri, un Cdm di fuoco perché si discuterà di riforma del pubblico impiego. E dentro c'è tutto: dalle pensioni alla mobilità, per tacere dell'adeguamento di stipendio al palo dal 2009.

Ecco, anche ad un occhio distratto non sfugge la contraddizione. Meno di 24 ore per arrivare in consiglio con un testo da presentare all'esecutivo. Ma non è che 'sta riforma è una bufala o, più semplicemente, il testo è blindato e non se ne  vuole discutere con i sindacati?

Perché io non me lo vedo proprio lo staff della Madia prendere appunti mentre la triplice muove obiezioni, propone varianti, negozia accordi, per arrivare a un documento "condiviso" - oramai è tutto condiviso, presto anche  l'attività della ritirata -  per poi riscriverlo e rivederlo in un battibaleno e farlo  leggere, accettare e sottoscrivere. Ok per le nuove tecnologie, ma qui stiamo abbiamo bisogno di  Nembo Kid, un uomo capace di fermare il proprio battito cardiaco senza un plissé e perciò anche di mettere mano alla riforma nelle poche  ore che separano l'incontro dalla convocazione.
E non stiamo parlando mica di poche paginette, tipo compito in classe di terza elementare dall'evocativo titolo "Come ha trascorso la domenica", me li ricordo con l'angoscia nel cuore a dover descrivere la radio sintonizzata sul campionato di calci e il gelato nel tardo pomeriggio.
A dirla tutta dalle prime strombazzate abbiamo già emendato la miniriforma delle pensioni (sig!) e  l'adeguamento contrattuale, lasciando sul tavolo solo la mobilità dei dipendenti, volontaria e/o indotta, perciò forse il ministro ha fatto bene.
Basterà un quarto d'ora per parlare imporre questa novità, per altro già possibile. Ma tant'è.

mercoledì 14 maggio 2014

Calze open toe: per non dimenticare

Va be' ci sono ricascata. No, non nella spirale del vizio, che per me è solo la sigaretta, ma nella sfrenata passione per le calze.
Sarà il meteo malandrino o le prove tecniche d'estate, ma i piedi  non ne possono più di calzare anfibi da pompiere. Perciò,  inaugurata ufficialmente la stagione di caccia nei bauli che hanno custodito per il lungo inverno vestiti e accessori da mezza stagione, finalmente mi impossesso nuovamente di sandali e di scarpette leggerissime e taccatissime. Certo l'outlet mi ha fornito un validissimo aiuto con un paio di trampoli open toe della scorsa collezione, ma davvero splendidi.
Peccato che dalle sottane a mezza coscia facciano capolino, come al solito,  gambe bianche come le pale eoliche in montagna, quelle che si vedono a 400 chilometri di distanza e impattano a tal punto  che persino il ministero dell'ambiente sta pensando a riconvertire gli impianti al più tradizionale carbone.

E allora si ritenta: calze open toe, che significa gambe coperte e punta dei piedi liberi. ma questa volta di un'altra marca.E anche più economiche, solo quattro euro e mezzo per guadagnarmi l'effetto "coscia miele" senza sacrificare le décolleté pitonate.

Com'era prevedibile è stato uno strepitoso successo di pubblico e di critica, perciò sicura di me ho percorso chilometri di corridoi del mio ente ancheggiando oziosamente come una pavoncella giuliva, fino a quando l'inesorabile contrappasso non mi ha presentato il conto moralizzatore. Salatissimo.

L'elastichino che si ancorava all'alluce e che rendeva possibile il miracolo della calza, nel giro di poche ore ha interrotto il normale flusso di sangue alle estremità inferiori riducendo il dito alla stregua di un salsicciotto perfetto per una fagiolata, ma certo non propriamente sexy.  In pochi secondi sono passata dallo stato di euforia assoluta alla mestizia più profonda per l'ennesimo tentativo andato a vuoto.

Pur volendo perseverare nell'intento modaiolo  nonostante il molesto dolore, mi sono dovuta ricredere di fronte alla prospettiva,  non certo allettante, dell'amputazione degli arti inferiori causa blocco della circolazione periferica.

Così sono ritornata nel cesso e mi sono strappata le calze da sola. Naturalmente a tutti ho dichiarato che si trattava del piacevole esito di un singolar tenzone con un misterioso ammiratore, ma nel frattempo ho prenotato dieci lettini abbronzanti.


lunedì 21 aprile 2014

Dal cesso pubblico mi guardi Iddio....

Sarà che è la cosa più naturale del mondo e allora uno la prende sottogamba o che il bisogno quando è impellente ti fa commettere qualche errore, ma qualcuno me lo deve spiegare come mai in Italia i cessi pubblici fanno quasi sempre schifo.

Stavolta la "minzione" speciale la conquista la Gam di Torino, dove questa mattina  sono andata a sbirciare un Caravaggio appena arrivato dalla fondazione Longhi di Firenze - sì: è il celebre "Ragazzo morso da un ramarro" che ha una copia quasi gemella alla National Gallery di Londra, che però si son guardati bene dal prestarci - ebbene, al termine della visita  con osservazione compita a debita distanza del quadro, decido che è arrivato il momento di tagliare la corda, tanto la Gam la conosco bene, non è che ogni volta devo fare il giro di tutti i piani.  Così tacito la mia coscienza e confermo il no dirigendomi con passo sicuro verso l'uscita. 
Tuttavia, data l'ora, decido per un bel caffè, ma  mi rendo conto che la necessità mi batte il tempo. Ok, niente di grave. Trovandomi io nella sede di un museo che attira folle di turisti sono certa che troverò un bagno degno di tanta cultura. 


Così è. In fondo a sinistra al piano terreno si parano le porte con l'inequivocabile simbolo di genere: spingo la porta con sovraimpressa una figura di donna e dopo aver superato con poche falcate l'avveniristico lavandino, entro direttamente nel cesso a caccia di un sostegno dove poggiare borsa, giacca e depliant esplicativi per  avere le mani libere. Ma ecco cosa trovo:




Un cesso degno di una giornata di sciopero degli addetti alle pulizie sui treni a lunga percorrenza: carta assorbente buttata alla bell'e meglio sul pavimento irrorato di piscio e gocce sparse sulla tavoletta.
Ora io capisco che il bisogno quando arriva è un tiranno spietato ed egoista, ma se siamo a questo punto facciamocene una ragione e usiamo i pannoloni: oggi ne vendono di invisibili anche sotto un abito attillato - certo se andate in giro conciate come Belen non è sufficiente, in questo caso occorre farsi confezionare un catetere glitterato con sacchetto a forma di farfalla,  ma non è da tutti. Per deretani più ordinari è sufficiente:
a) estrarre dall'apposito contenitore un copriasse      monosuso e biodegradabile
b) stenderlo sulla tavoletta
c) scoprire le parti molli
d) poggiarle sulla tazza
e) rilasciare la muscolatura.

Soddisfatto il bisogno ripetere il procedimento a ritroso fino al punto c)

Prima di uscire ricordate di tirare l'acqua. Il bagno è pronto per un nuovo avventore.
Tanto difficile?

giovedì 10 aprile 2014

Ricerca personale

L'idea mi è venuta mentre andavo a caccia di un nuovo lavoro, visto che l'attuale mi dà le stesse soddisfazioni di un rubinetto che gocciola in una notte insonne, e lo facevo navigando in internet alla ricerca concorso, che di certo non vincerò, ma almeno conquisto un giorno di tregua.

Perciò posiziono il cursore a strascico per pescare dalle "pagine concorsi" di vari enti.

Ho tralasciato deliberatamente quelli per l'agenzia spaziale dove cercano solo ingegneri, qualifica che non ho conquistato a suo tempo, come voleva mio padre e il cervellino pure faceva il suo porco lavoro, figurarsi oggi, che sono un'attempata giornalista, anche se trasferita d'imperio all'archivio del mio ente, ma pur sempre una giornalista. Date le premesse opterei per un qualche incarico tipo dirigente delle comunicazione, ben consapevole che per questo mestiere, alla faccia delle leggi, occorre solo essere cooptati. 

Così in pieno surfing trovo un bando dell'Istituto superiore della sanità che assume un collaboratore per una ricerca dall'esplicito titolo “Studio dei metodi per l’individuazione della presenza di residui di dispositivi medici nel corpo umano a seguito di interventi chirurgici”.

Ora io vorrei richiamare l'attenzione non tanto sui requisiti per partecipare al bando, tanto la solfa è sempre la stessa: cercano un astronauta e lo pagamo come un impiegato di concetto, forse anche meno, quanto sul titolo stesso della ricerca: "Studio dei metodi per l’individuazione della presenza di residui di dispositivi medici nel corpo umano a seguito di interventi chirurgici”.

Vediamo se ho capito bene: occorre scoprire uno o più metodi, speriamo infallibili, che permettano  all'equipe medica, stremata da un intervento sul grande addome, se nella fretta di richiudere il paziente non abbia lasciato un paio di forbici nella fossa iliaca, offrendo così al malcapitato l'impareggiabile opportunità di finire al Creatore, ma solo dopo settimane passate a contorcersi come un verme per i dolori. E magari evitare la consueta denuncia per errore medico che fa lievitare il premio assicurativo delle strutture pubbliche, private e accreditate.

Sono situazioni che uno, dall'esterno, non immagina neanche. Funziona più o meno così: in sala operatoria arriva il cristiano intimorito, tutti gli sorridono. Lo preparano mettendogli una cuffietta, coprendolo con materiale sterile e monouso, poi lo assicurano al letto e, sempre sorridendo e con molta calma, gli cercano una vena dove infilano un ago pronto alla bisogna e lo addormentano. A quel punto la vita del personale medico e paramedico cambia tenore e velocità: è tutto un vociare e un raccontarsi vicissitudini e aneddoti, una gara a chi ce l'ha più grosso, o è andato più lontano e/o - diciamolo pure- a chi ha scopato di più. Tutto serve per stemperare la tensione. Intanto il primo chirurgo (quello responsabile dell'intervento) taglia, il secondo, l'aiuto, tiene il divaricatore e aspira il sangue (poco, credeteci non come al cinema), il terzo, lo schiavo o specializzando, tiene i fili, mentre uno strumentista sovraintende a ferri e garze. 

Poi, reciso il pezzo malato, tutto finisce: ago e filo, muscolo, derma, sottocute e cute e si richiude. Non prima di aver contato garze e strumenti. Di solito i conti tornano. 

Ma qualche volta no.

Allora è tutto un alzare telini, spostare lenzuola e rovistare nella spazzatura della sala (vero, c'è un cestino per ogni paziente, ma non siamo in Svizzera)alla ricerca della garzina arrotolata sfuggita alla conta o di altri presidi. 

Intanto il paziente è lì ancora intubato e curarizzato con l'anestesista che bestemmia, mentre il chirurgo si allontana soddisfatto, più per le panzane che ha sparato che per l'esito del lavoro, e cammina  con passo trionfatore verso altri lidi, mentre in sala operatoria si scatena l'inferno per organizzare gli interventi successivi. E della garza neanche l'ombra. 


Allora qualcuno, di solito la caposala, categoria di donna come non se ne trovano tante in  giro, dal carattere inequivocabilmente autoritario, fornita di palle d'acciaio che qualche volta lancia contro medici supponenti riducendoli a un silenzio degno di uno scolaretto d'altri tempi, bene questa matrona d'altri tempi decide di fare una radiografia al paziente a caccia di forme nuove nel corpo umano. Bene, se la lastra restituisce un'ombra bianca con la foggia una pinza, tanto per fare un esempio, siamo inequivocabilmente di fronte a un "residuo di residuo di dispositivo medico". Basta richiamare il chirurgo, rilasciare un'altra dose di curaro, riaprire il paziente, prendersi la pinza e riprendere daccapo la routine: muscolo, sottocute e cute. 

Ma evidentemente di quelle caposala non ce n'è più, oppure no, ma occorre comunque cercare una strada che permetta quantomeno di individuare un metodo, redigere report, creare banche dati, costituire un tavolo di lavoro, condividere esperienze, scambiare buone pratiche, promuovere comportamenti corretti, fissare procedure accreditate, esportare buone prassi, e tutta una serie di belle parole che vanno tanto di moda in questo periodo.

Va da sé che questo post viene pubblicato a ricerca scaduta. Che non vi venga in mente di partecipare. 

mercoledì 2 aprile 2014

Capolavori dell'impressionismo recuperati. Acquistati negli anni settanta quando esisteva l'ufficio oggetti smarriti.

La notizia è da mille visualizzazioni. Forse anche di più. Di quelle che  insospettiscono il lettore e gli fanno subito credere che sia una panzana pubblicata per distogliere l'attenzione da un'imminente crisi economica o una nuova tassa per tenere buoni i commissari europei.

Invece no, pare sia proprio vera: un operaio compra due quadri e se li tiene in tinello per 40 anni. Peccato che le due croste, comprate nel 74 per 45mila lire, in realtà fossero due capolavori dell'impressionismo, uno di Gauguin e l'altro di Bonnard, dall'approssimativo valore di circa 35 milioni di euro. 

La storia del rocambolesco ritrovamento è raccontata qui, ma quello che mi ha colpito è il posto dove si è consumato i'ingenuo acquisto. 

Infatti l'operaio, evidentemente appassionato d'arte, se le aggiudicate ad un'asta delle Fs che metteva in vendita i più svariati oggetti dimenticati sui tremi e conferiti all'ufficio "oggetti smarriti". Quando c'era. 

Si perché se i quadri fossero stati lasciati su un Freccia rossa sarebbero finiti direttamente nell'inceneritore di Gerbido, inquinando come una petroliera perché dipinti a olio,  giacché l'ufficio "oggetti smarriti" non esiste più.

Ah non ci credete. Neanche io, prima di un week end a Milano. Ma un innocente episodio mi ha ricordato che i tempi che cambiano. Eccome. 

I fatti: spinta dalla fretta di salire sul treno mi è caduta la maglia, che avevo vezzosamente adagiata sulle spalle, nella fossa dei binari. Temendo di fare la fine di Anna Karenina, senza neanche essermi goduta Vronskij, ho desisti dal recuperare il prezioso pullover. 
Al mio ritorno a Torino, la domenica sera, ho girato in lungo e largo Porta Susa, la più avveniristica delle stazioni italiane, crocevia di frecce e  treni supeveloci con servizi clienti in ogni dove, senza che qualcuno sapesse rispondere a una stupidissima domanda: "Se uno perde una maglia in stazione dove può andare a chiedere notizie su un eventuale ritrovamento?"
"Eh, signora, non è più come una volta..." e mi son beccata pure della vecchia.

Ma dove sono finiti i vecchi "uffici oggetti smarriti", quei locali zeppi di cianfrusaglie recuperate su treni o autubus e portati a mano da cittadini intrisi di senso civico?

Scomparsi. Anche loro insieme agli oggetti che raccoglievano.
E' finita un'era, quella della conservazione, del recupero, del ritrovamento.
Ma vi ricordate con quanta trepidazione si andava nell'ufficio a caccia dell'ombrello firmato regalato dalla zia, o del giubottino in finto camoscio con i gomiti un po' rovinati, ma tanto bello, e non mancava chi lasciava sul pullman persino la borsa con i libri di scuola, che quando ti accorgevi di averla persa correvi da un capolinea all'altro nella speranza di ritrovare almeno i quaderni degli esercizi copiati a scuola.  Che tempi quelli.
Bene adesso è tutto finito, ma io non lo sapevo. Così presa dallo sconcerto sono andata al binario 2, dove il giorno precedente avevo perso la maglia blu elettrico che tanto mi piaceva e la ritrovo lì nello stesso punto, neanche tanto sporca e neppure tagliuzzata dalle ruote del treno. Che forza queste Frecce, sembra che volino. E soprattutto, che straordinario servizio di pulizia. 

Forse anche i quadri di Gauguin sarebbero rimasti sulla banchina e l'operaio torinese non avrebbe neanche dovuto pagare per portarseli a casa. Ma qui siamo nel campo delle ipotesi.